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L’Allenatore.

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A cosa serve l’allenatore? La risposta più semplice è che serve ad allenare. E non sarebbe sbagliata. Ma la semplicità, nelle regioni complesse dell’attività umana, cela delle insidie. Infatti, l’essere umano è un soggetto che si esercita, da solo o con gli altri, ma non necessariamente con un allenatore. Ogni abitudine contratta è frutto di allenamento. Dal mangiare con le posate al sedersi ai banchi di scuola: tutto è allenamento. L’allenamento è una sequenza di esercizi che cambia la mentalità e il corpo di chi li compie, secondo la legge della ripercussione autoplastica. Determinante dell’allenamento è la meta che ci prefiggiamo. Questo “esser per la meta” determina gli esercizi più semplici e quelli più duri, gli esercizi positivi che ci fanno crescere e quelli negativi che ci fanno peggiorare.
L’abbassamento attuale delle nostre ambizioni, la banalizzazione delle mete e l’egemonia dei social ha messo in crisi la figura dell’allenatore trasformandolo in un influencer col sorriso del ciarlatano. I programmi tipo “dimagrire abbuffandosi”, “correre senza fatica”, “laurearsi senza impegno”, “saper scrivere senza leggere” hanno un messaggio sorprendente: puoi migliorare senza allenarti, basta che segui me (fai in modo che ti influenzi), io sono la negazione di qualunque ascesi, io sono l’anti-allenatore, il teorizzatore consolante degli esercizi di mediocrità e trascuratezza.
Se usciamo dai social ed entriamo nei luoghi fisici dell’allenamento, l’allenatore è colui che sa portare un individuo o una squadra nella dimensione dell’”Alta Cultura”. L’Alta Cultura, al di là del sistema simbolico di riferimento (estetica, meccanica, scienza, persuasione, terapia, elevazione, agro-gastronomia o organizzazione), è orientata a mete (eccessi) iperboliche o acrobatiche. Mete, dunque, che eccedono di gran lunga la zona prossimale dell’ozio, soprannominata stato di confort. I prodotti dell’alta cultura spaziano dall’arte alla tecnica. Producono magnifiche opere d’arte, utilissime invenzioni tecnologiche, scoperte scientifiche che cambiano la visione del mondo, metodi terapeutici che rafforzano i sistemi immunitari, innovazioni agricole e culinarie che combattono la fame e la sete, performance sportive e spirituali che sanno di trascendenza. Hanno caratterizzato la migliore storia umana e sono frutto di competenze eccezionali, talenti ed eccellenze, riconosciuti non solo dalle élite, ma da chiunque abbia avuto la fortuna di ammirarli; non importa se dentro una chiesa o in uno stadio. Queste competenze si sono forgiate in spazi destinati al ritiro. La storia di questi spazi deve essere ancora scritta. Si va dai ginnasi alle accademie, dai monasteri alle botteghe, dai laboratori agli stadi. Qui le potenzialità sono affamate di esercizio e di fatica.
Nell’atmosfera dell’alta cultura, le mete, normalmente improbabili e impossibili, vengono presentate come possibili e imitabili. Tipico dell’alta cultura e dei suoi praticanti è trasformare prestazioni straordinarie a convenzioni replicabili e insegnabili. Chi comincia a frequentarla sviluppa dentro di sé una tensione costantemente rivolta verso l’alto (negli allenamenti spirituali si denomina il bene alla vetta come sommo bene), dove si situano le meraviglie. “Il meraviglioso è il sorriso dell’impossibile”, scrive Sloterdijk. Le più esasperate tensioni verticali hanno sempre origine dalla trasformazione dell’improbabile in un modello esemplare, che ispira e attrae. In questo contesto l’allenatore si presenta come traduttore dell’impossibile nel probabile e come guida nel processo per realizzalo. Nel campo dell’alta cultura infatti non si tollera la proprietà privata delle vittorie contro l’impossibilità. Qui non vige la legge della genetica, del talento naturale, del genio unico e straordinario, del figlio di un dio, prescelto e insostituibile. Siamo nel regno della filoponia, dell’amore per la fatica scelta e generativa. Nella sfera dell’alta cultura, i primi allenatori solo gli atleti (spirituali, tecnici, artistici, sportivi) che hanno compiuto imprese straordinarie come pura eccezione. Siamo nel regno della spartana Cinisca che nel 396 a.C. fu la prima donna a partecipare alle Olimpiadi e  a vincere sui maschi con il “cocchio dei cavalli veloci”, cavalli che allevava sin da bambina e di cui era esperta e appassionata. Donne come Cinisca nei secoli a seguire sono divenute allenatori di altre donne, hanno reso imitabile ciò che loro e solo loro avevano prima raggiunto.
Così sono nati gli allenatori, trasformando in allenamenti ciò che si pensava impossibile e rendendolo imitabile. Nel farlo hanno inventato insiemi di esercizi come prassi di elevazione, come ascesi, ma lo hanno proposto solo a chi era pronto a raggiungerlo, a chi non smetteva di desiderarlo. Con la figura dell’allenatore nasce la tecnica della combinazione motivazionale. Se l’allievo porta al ginnasio, alla bottega, al monastero, alla scuola la sua bella porzione di volontà affermativa, all’allenatore spetta il compito di coltivare dentro di lui una seconda volontà, la volontà dell’allenatore stesso. La volontà dell’atleta e quella dell’allenatore si combinano facendo in modo che quella dell’atleta si accresca e si sostenga nei momenti inevitabile della crisi. La volontà voluta dell’allenatore espande la volontà volente dell’atleta. L’atleta ha una carica energetica che può portarlo ai vertici che non avrebbe mai potuto toccare senza la combinazione delle due volontà. Da qui in poi impegno, fatica e recupero si instradano sulle vie della tecnica, degli esercizi, degli esperimenti, dei tentativi e degli errori, del completo esaurimento e della rigenerazione miracolosa. Il patrimonio di queste antropotecniche è vastissimo. Ma l’allenatore è sempre rimasto nell’ombra, non ha avuto mai riconoscimenti né nelle antiche olimpiadi né in quelle moderne (gli allenatori di molti atleti rimangono a casa per mancanza di fondi a differenza dei burocrati delle federazioni, sempre sotto i riflettori). E poiché con l’allenatore è sempre rimasto nell’ombra anche il processo di allenamento, a noi mortali è dato vedere imprese straordinarie e risultati epici, i sorrisi delle cose impossibili, senza comprende come si sono raggiunte. Se i risultati degli allenati generano estasi di entusiasmo, nessuno di noi continua a capire come tutto ciò è accaduto. Per saperlo dovremmo parlare con chi è fuori dai campi e dalle mostre, chi siede in un sottoscala dietro le quinte, gioendo dentro di sé dei successi altrui e custodendo nel suo animo le mappe che portano all’impossibile.
Nella contemporaneità, perché esistono Coach Umanisti? Allenare l’umanesimo pone mete molto più complesse del passato, perché gli umanisti pretendono che l’umanità sia all’altezza della loro essenza. La performance e l’obiettivo si modificano, così come si trasforma il concetto di “alta cultura”; da campi virtuosi e tecnicamente eccellenti, l’”Alta Cultura” si trasforma in “Alta Umanità”, una dimensione culturale di ascesa in termini di bene. Essa offre al talento la possibilità non solo di misurarsi con il difficile, ma anche con speranze di felicità comune. L’Alta Umanità non si manifesta solo in artefatti. Investe soprattutto le relazioni di cura, di convivenza, di supporto e solidarietà, di elevazione reciproca e di pacificazione autentica. L’essere, il fare e l’amare divengono dimensioni allenabili sospinte verso vette che sembrano assurde in un contesto di decadenza e alienazione sociale. Si chiede di elevarsi verso la sommità di un bene, individuale, relazionale e collettivo, che non è un dato, ma è una combinazione ricca di ricerca, di esperimenti, di invenzioni, dove i sentimenti sono tanto importanti quanto le intelligenze e le coscienze. A differenza della vetta tecnica che per quanto difficile è riconoscibile, del bene in sommità foriero di virtù e felicità abbiamo alcune intuizioni, conosciamo alcune coordinate valoriali, ma per il resto è una ricerca comune tutta da portare avanti; nella sua individuazione l’atleta è persino più importante dell’allenatore. Perché l’atleta pone la domanda senza la quale l’allenatore non esiste. L’allenatore per riuscire nell’impresa non solo deve incarnare questa ricerca, non solo deve avere una vocazione per sostenere l’atleta nell’ascesi, ma deve anche essere competente. I suoi metodi e i suoi esercizi devono essere efficaci. E poiché ogni vetta raggiunta diventa una pianura da cui ammirare nuove e più alte vette, l’allenamento, ovvero il viaggio verso la meta, deve essere appagante, soddisfacente, felice quanto la meta stessa.
02 Ott, 21